01 ottobre 2007

Sfida ad armi impari contro l’impunità

La testimonianza del procuratore Bruno Tinti. I tempi di prescrizione e i carichi di lavoro dell’amministrazione diventano un aiuto per chi compie reati

«Toghe rotte, la giustizia raccontata da chi la fa», Edizioni Chiarelettere 12 euro.

«Ogni lunedì mattina, a Torino, due poliziotti bussano alla porta di un procuratore del tribunale: bisogna compilare le richieste di decreti penali per violazione dell’articolo 186 del Codice della strada, quello della guida in stato di ebbrezza. Ma chi lavora lì, il procuratore aggiunto Bruno Tinti, si arrovella da tempo: «Ma perché non possono farsi pagare gli stessi 900 euro a cui li condanniamo noi? Tanto più che i nostri 900 euro non li pagheranno mai. Succede così: noi chiediamo il giorno stesso al gip di fare il decreto penale, però glielo mandiamo tra due anni perché la cancelleria prima non ce la fa; il Gip ci mette altri due anni a fare le notifiche. A quel punto è scattata la prescrizione e l’ubriaco al volante non paga nemmeno un euro».
Paradossi come questo spiegano perché la giustizia italiana non funziona. Tinti li ha raccontati nel libro «Toghe rotte», edito da Chiarelettere, di cui ha parlato ieri intervenendo al programma «Viva Voce», su Radio 24. Non c’è un filo di retorica nelle pagine scritte dal magistrato di Torino: al contrario, il libro è una lucida ricostruzione di chi è chiamato ad amministrare la giustizia ma deve fare i conti con un sistema desolante.
«Ma lo sanno i cittadini italiani che, vista la prescrizione, noi lavoriamo spesso per niente?» chiede provocatoriamente Tinti. E invita ad analizzare i reati di tipo finanziario, settore in cui il magistrato è specializzato: «In Italia bancarottieri, evasori, truffatori hanno vita facilissima – racconta Tinti – ci sono alcuni processi che neppure cominciano e sono già prescritti. Faccio un esempio: poniamo che la Guardia di Finanza oggi stesso vada a controllare i bilanci di una società e faccia la verifica fiscale dal 2003 al 2006. Per fare la verifica ci mette un anno e magari scopre un falso in bilancio del 2005. Quando il rapporto arriva sulla mia scrivania è già la fine del 2008. A quel punto me la fate fare un’indagine? Il che vuol dire esaminare conti bancari all’estero, controllare commercialisti spesso con sede a Londra. Questa indagine, se lavoro come una bestia, dura almeno un anno e mezzo. La prescrizione per falso in bilancio, per una società quotata in Borsa, scatta a sette anni e mezzo. Risultato: non arriviamo nemmeno alla sentenza di primo grado».
Gli esempi contenuti in «Toghe rotte» a volte sono spassosi, in altri casi si ride per non piangere. Inarrivabile il racconto di «come ammazzare la moglie e vivere felici», nel quale si spiega come è possibile compiere un uxoricidio e cavarsela con appena cinque anni di carcere. Il tutto applicando rigorosamente il Codice. «Nei confronti del quale – aggiunge polemicamente Tinti – non voglio dire una sola parola».
Con tutte le garanzie previste a difesa dell’imputato, in carcere ci vanno sempre meno persone: «Ormai ci finisce solo qualche omicida, qualche rapinatore e una sterminata quantità di extracomunitari che rubacchiano o spacciano», prosegue Tinti. «Il sistema non dà risposte. Una pena di tre mesi inflitta il giorno stesso o quello successivo la commissione di un reato ha un effetto deterrente. Invece una pena finta di sei anni, inflitta dieci anni dopo il reato, vuol dire che si può delinquere impunemente».
(Il Sole-24 Ore, 29/9/2007)

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