24 gennaio 2011

D. DeLillo, Great Jones Street (73)

opera non riuscita, fiacca. gli americani che scrivono di rock a volte sono come gli italiani che parlano di calcio
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In strada, qualcuno stava picchiando con un martello. Il rumore era pulsante, accompagnato da echi quasi liquidi, e ben presto venne affiancato da quello di un secondo martello a un isolato di distanza, colpi massacranti come onde concentriche, probabilmente dalle parti di Bond Street. Il più rumoroso dei due era il più lontano, e ascoltati insieme parevano disegnare un tracciato in lenta espansione, di tempo, silenzi e riverberi, ciascuno dei quali fluiva negli altri ad ammorbidire l'aria pietrificata, finché uno dei due martelli tacque e l’altro si fece ancora più brutale.

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Sig.ra Olmstead: Lei si considera un artista?
BW: Il vero artista fa muovere la gente. Quando la gente legge un libro o guarda un quadro, se ne sta lì ferma.
In piedi o seduta, ma ferma. Secoli fa era okay, era giusto cosi, l’arte era quello. Adesso è diverso. Io faccio muovere la gente. Il mio sound gli fa alzare il culo. Sono io a farglielo alzare. Cercate di capirmi. Sono io. In realtà, pero, a me piacerebbe fare del male fisicamente a1 pubblico con il mio sound. Magari ammazzare qualcuno. La gente verrebbe ai concerti perfettamente consapevole di questo. Noi cominciamo a cantare e suonare e qualcuno nel pubblico sente dolore fisico o magari ha le convulsioni e qualcuno addirittura ci lascia la pelle per effetto delle nostre musiche e dei nostri testi. Non è mica facile generare il sound giusto al volume giusto. Pensate, la gente che crolla a terra dal dolore. E tutti verrebbero a1 concerto con la piena consapevolezza che può succedergli. Gente che muore di bellezza e potenza. L’arte è questo, bimba. E sono io a crearla.
Sig. Niles: A questo punto mi viene il dubbio che lei parli seriamente solo per metà.
BW: Quale delle due?
Sig. Bakey: Non stara cercando di dire, o forse sta proprio cercando di dirlo, che si limita a fare un grande rumore ed è esattamente questa la formula o l’ethos wunderlickiano?
BW: La storia della mia vita è tutta venata di malinconia. Più faccio muovere la gente e più mi avvicino all’inerzia personale. Quando vedo il pubblico saltare come salta o tenersi la testa fra le mani nel modo in cui vedo che tende a stringersi la testa fra le mani, ho addosso come un senso di malinconia, perché io per primo mi sento esausto di tanto movimento e vorrei proprio mettermi contro un muro e diventare assolutamente inerte.
Sig. ra Hall: Senz’altro.

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L’hashish fumato negli alberghi ha sempre qualcosa di malefico. Ricordavo la sensazione di avere il centro della testa occupato da qualcosa che cercava di espandersi, di uscire esercitando una pressione spaventosa. Ci trovavamo in vari motel tra un volo e l'altro, o tra un concerto e l’altro, o tra un volo e un concerto e cosi via. Il motel non era mai lo stesso, ma le giornate erano sempre identiche, dovunque ci trovassimo. La tensione dell'attesa non aveva mai spigoli: era un unico sconfinato piano bidimensionale di tempo privo di soluzioni di continuità. In genere ci trovavamo alla periferia di qualche grande centro abitato (non necessariamente una città) e ce ne stavamo seduti per terra o sul letto, mai sulle sedie, ad aspirare hashish di pessima qualità in attesa che l'immancabile limousine uscisse dal suo parcheggio tra le boscaglie di plastica, un elegante carro funebre destinato a contenere sei o sette fra musicisti, road manager, bionde altissime dalle gambe perfette, quasi tutti in abiti vecchi e logori, jeans da barbone e stivali scalcagnati, tutti impregnati di marijuana, occupati a orientarsi in mezzo alle incoerenze della vita per poi scoprire che l'impresa è impari.
Ma sono soprattutto le camere in cui si dipanava questa nostra attesa che ricordo bene. Di un anonimato che sembrava possedere un centro precise, un segreto distante, raggiungibile solo per mezzo delle energie sguinzagliate da certe droghe. L'hashish, in un ambiente simile, era strano, sembrava una droga fasulla e tecnologica fabbricata e commercializzata sotto controllo statale, quasi un'arma tattica creata da un inventore dilettante al più infimo dei livelli industriali. Non c'era piu nulla di sicuro, né via certa per raggiungere il centro. In quei momenti ero terrorizzato e completamente immobile, diffidente di chiunque si trovasse con me nella camera, mi sentivo appesantire con ogni secondo che passava. Mi sembrava di avere nel cranio una specie di motore organico e pulsante. Spesso facevo del mio meglio per uscire da quella congiuntura di terrore e sballamento usando la razionalità. Ma le zone di pressione erano troppe e troppo concentrate, in quell'universo c'era troppa gravità, e per quanto non riuscissi mai a riconciliarmi con l'orrore finale, non ero mai in grado di resistere alla verità del fatto che gradualmente mi trovavo sussunto in categorie ancora più immote, quelle a cui appartenevano la sedia, il letto, la stanza o tutto il motel in cui mi trovavo volta per volta. (È stato durante una di quelle mezze ore di follia pensosa che ho create il nome «Transparanoia» per battezzare il nostro coacervo di holding, fiduciarie, acquisizioni e cabale finanziarie, che si espandeva come una macchia di inchiostro.) Nella più anonima delle camere nulla era comprensibile. Aspettavamo di venire accompagnati a uno stadio, a un centro congressi, a un teatro o palazzo dello sport e poi collegare gli strumenti agli amplificatori, e poi sentirci percorrere il sangue da quel ronzio beneaugurante di corrente elettrica, dare al pubblico il sangue che desiderava, vergini cieche nude su piedistalli di polistirolo, venditori di medicine antiche, maestri della trance, stoici che esibivano al mondo i buchi nelle vene, assassini di lama e di veleno, e i cervelli fondevano nel nostro sound sinuoso, in un ululato elettrico e le vecchie urlavano sulle sedie a rotelle, i bambini travestiti da donna, i banchieri dementi, i mercanti di vino e gli stupratori di bambini, i mistici in calore, i ragazzotti traslucidi che palpavano le tette alle mogli dei missionari. Folle che si accalcavano una contro l'altra, incatenate a una storia invisibile, e i piu giovani di quel pubblico erano ben consapevoli che fra i bisogni umani ce n'è uno superiore a tutti gli altri, vale a dire il bisogno di essere illetterati in un mondo di parole che si cancellano da sole.

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