13 ottobre 2007
Teardrop - Jose Gonzalez
anche questa cover non è male, ma ho ancora le sinapsi sature di smalltown boy
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12 ottobre 2007
La guerra per l’oppio
Lashkargah, profondo sud dell’Afghanistan, primavera 2007. Le acque del fiume Helmand, che serpeggia lento e sinuoso attraverso il Dashte-Margo, il Deserto della Morte, danno vita e fertilità a una terra altrimenti arida.
Nell’aria calda e polverosa della città, il profumo degli alberi di mandarino in fiore si mescola all’odore acre di carne bruciata dei cadaveri straziati e carbonizzati dall’esplosione dell’ennesimo uomo-bomba saltato in aria in centro.
Nella notte tiepida e illuminata dalla luna, il dolce canto dei grilli fa da sottofondo al rumore degli elicotteri da guerra e dei jet militari che volano senza sosta, carichi di missili e bombe che sganceranno sui villaggi controllati dai talebani. Missili e bombe che uccidono centinaia di civili, come testimoniano i feriti che arrivano nell’ospedale di Emergency a Lashkargah. Ma nessuno lo dice, perché dall’anno scorso il governo afgano – di concerto con la Nato – ha imposto la censura più completa su qualsiasi notizia che possa ingenerare sentimenti “contrari alle forze internazionali presenti nel paese”.
Forze che a Lashkargah non si vedono più: hanno paura. Contrariamente a quanto accadeva fino a pochi mesi fa, oggi è impossibile incrociare per le polverose strade della città i Land Rover dell’esercito britannico – questa è zona loro: se ne stanno chiusi nella loro base-fortezza, il Prt di Lashkargah.
Muoversi in convoglio per il centro abitato sarebbe un suicidio: la gente qui odia i militari stranieri, e i talebani ormai sono presenti ovunque e colpiscono ovunque. In giro ci sono solo soldati e poliziotti afgani armati fino ai denti, oltre ai contadini e ai primi braccianti stagionali che da tutto il paese stanno affluendo per il raccolto qui in Helmand, dove si produce la metà di tutto l’oppio afgano.
Nei campi fuori città, i papaveri da oppio sono sfioriti e quasi pronti per essere incisi. Quest’anno si prevede un raccolto che straccerà ogni record storico.
Le abbondanti piogge primaverili, del tutto eccezionali per questa regione arida, dovrebbero garantire una produttività mai vista prima, sfondando addirittura il tetto dei cento chili di oppio per ettaro, il doppio della norma.
Questo, ovviamente, ha fatto scendere di molto il prezzo di mercato del tariak, l’oppio grezzo, quotato a 80-90 dollari al chilo. Meno degli anni passati – quando l’oppio rendeva 100-120 dollari al chilo – ma sempre molto più di quanto renderebbero altre colture come il riso, il grano o il mais, ancora fortemente deprezzate a causa dell’imbattibile concorrenza delle forniture gratuite del World Food Programme che negli ultimi anni hanno inondato il mercato afgano. Per questa gente l’oppio è l’unica possibile fonte di sussistenza. Vista la mancanza di alternative, senza l’oppio morirebbero di fame. Per questo sono pronti a difendere i loro campi, anche con le armi, anche a costo della loro vita. Sono già decine i contadini uccisi quest’anno dalla polizia afgana impiegata nella campagna antidroga del governo Karzai, sostenuta dai quattrini della comunità internazionale. Ma anche questi fatti vengono tenuti nascosti, o camuffati: i contadini uccisi diventano, da morti, talebani.
Già, la campagna antidroga: un programma fantasma, che in cinque anni non ha dato nessun risultato. La produzione dell’oppio in Afghanistan non è mai stata florida come sotto il governo Karzai. L’anno scorso nel paese c’erano 165 mila ettari di terreno coltivati a oppio e quest’anno sfioreranno i 180 mila ettari, vale a dire il doppio rispetto ai 91 mila ettari coltivati del 1999, l’anno del record storico sotto il regime talebano, quando vennero prodotte 4.600 tonnellate di oppio. Quest’anno il raccolto previsto è di settemila tonnellate. Le strade delle città europee sono inondate di eroina “made in Afghanistan” molto più oggi (il novantadue percento della produzione mondiale) di quando a produrla c’erano i mullah con turbante e barba lunga (il quaranta percento).
Come spiegare un simile fallimento nel conseguire un obiettivo che fin dall’inizio dal 2001 era stato presentato come una delle ragioni per cui bisognava abbattere il regime talebano? Un obiettivo tanto più importante in quanto – lo sapevano tutti – il rifiorire dell’oppio sarebbe stato usato dai talebani per finanziare la loro riscossa, com’è puntualmente accaduto. La risposta a questa domanda la iniziamo a trovare alla periferia di Lashkargah, all’ombra di un grande cartellone che pubblicizza i raid antioppio delle ruspe governative. Qui incontriamo Faizullah e Nur, due coltivatori amici di amici di amici che hanno acconsentito a raccontarci cose che non si dovrebbero dire a nessuno, tanto meno a uno straniero. “Voi credete che il governo venga a distruggere i raccolti. Invece viene a rubarli”, afferma il barbuto afgano lasciandoci a dir poco perplessi. “Vedete quei camion laggiù?”, dice indicando una lunga fila di mezzi parcheggiati ai margini della città. “Sono quelli sui quali il governo caricherà i papaveri tagliati dalle ruspe, per poi portarli a Kabul dove tutto dovrebbe essere bruciato in grandi falò. Ma li avete mai visti questi falò?”, domanda Faizullah facendo la faccia di chi la sa lunga. “Dovrebbero farli davanti alle telecamere, dando alla cosa la massima pubblicità, non vi pare? Invece dicono che fanno tutto di nascosto, per motivi di sicurezza. La verità è che l’oppio viene portato nelle raffinerie del governo, trasformato in eroina, e poi smerciato all’estero. Altro che campagna antidroga!”. Interviene il suo amico, Nur, il quale ci invita a riflettere su un semplice fatto. “Secondo voi, per quale ragione il governo decide di ‘distruggere’ i campi di papavero proprio in coincidenza con il raccolto? Perché aspetta che i papaveri siano pronti? Se lo scopo fosse veramente quello di distruggere i raccolti, il governo potrebbe mandare le ruspe prima, quando i papaveri sono ancora bassi. Invece aspetta la maturazione delle piante, per raccoglierle, non per distruggerle! Vi siete mai chiesti perché il governo si è sempre opposto all’uso degli aerei per distruggere i campi con i defoglianti? Credete forse che, come dicono loro, vogliano tutelare la salute dei
contadini? A spararci addosso però non si fanno problemi!”. Dopo la chiacchierata con Faizullah, decidiamo di approfondire l’argomento. Parliamo con altre persone di Lashkargah, altri coltivatori di papavero. Tutti confermano: il governo di Kabul finge di lottare contro il narcotraffico, ma in realtà sta semplicemente cercando di imporre una sorta di “monopolio di Stato” su questo lucroso business, colpendo solo i produttori di oppio “antigovernativi”, quelli che non si adeguano o che, peggio, sfidano le autorità.
“Chi come me ha un campo di oppio – spiega Gulam, proprietario di una piccola piantagione appena fuori città – ha due spese principali, che sostiene in oppio o in denaro: pagare la manodopera stagionale necessaria per il raccolto lasciando ai
braccianti una parte dell’oppio da essi raccolto, e pagare il governo per mettere al riparo il campo dalle ruspe e dalle irruzioni della polizia. Chi non paga questa tassa, o peggio paga il pizzo ai talebani, rischia che il suo raccolto finisca razziato dal governo”.
Insomma: il governo di Kabul si impossessa dell’oppio o “prelevandolo” con questo sistema di tassazione feudale clandestina, o rubandolo con la forza a coloro che non si adeguano, agendo dietro la copertura della campagna antidroga.
Che fine faccia l’oppio che arriva a Kabul a bordo dei camion mostratici da Faizullah ce lo spiega Sayed, che ha un fratello che lavora per il governo nella capitale. A suo dire, fino a un paio di anni fa, quell’oppio veniva trasportato
direttamente all’estero, soprattutto in Iran e Tagikistan, dove c’erano le raffinerie in cui veniva trasformato in eroina da inviare in Europa.
“Poi il governo – spiega Sayed – ha capito che conveniva costruire raffinerie qui in Afghanistan, così da smerciare all’estero direttamente il prodotto finito, l’eroina. Con dieci chili di oppio si fa un chilo di polvere bianca: un camion carico di eroina ne vale almeno dieci carichi di oppio.
Ovviamente questo lo hanno capito anche i talebani e i trafficanti a loro collegati, che qui al sud hanno costruito centinaia di raffinerie. Quelle governative invece stanno tutte nella zona di Kabul. Mio fratello mi ha detto di aver visto l’anno scorso un camion del governo stracolmo di sacchi di farina pachistana: dentro però c’era un altro tipo di polvere bianca. Tra l’altro – conclude Sayed – gira voce che molti di questi sacchi vengano rivenduti, o regalati, anche a ufficiali stranieri, soprattutto statunitensi”.
Al di là delle leggende urbane, i racconti di queste e di molte altre persone che abbiamo incontrato a Lashkargah descrivono una situazione completamente diversa, anzi opposta rispetto a quella che conosciamo noi in Occidente: il governo di Kabul sostenuto dalle nostre truppe e dai nostri soldi finge di lottare contro la produzione e il commercio dell’oppio, in realtà ci è invischiato fino al collo.
Il che non dovrebbe stupire più di tanto, se si considera che Walid Karzai,
fratello dell’elegante presidente afgano, è noto per essere il maggiore trafficante d’oppio della regione di Kandahar.
Ciononostante, i dubbi rimangono. Almeno fino a quando la realtà dei fatti
non ci viene platealmente sbattuta in faccia con un evento che ha dell’incredibile.
Pochi giorni dopo, infatti, i braccianti stagionali della provincia di Helmand
hanno minacciato uno sciopero per chiedere di essere pagati di più.
“Gli anni scorsi i proprietari terrieri ci pagavano lasciandoci un decimo, un
quindicesimo dell’oppio che raccoglievamo”, raccontava un contadino in quei giorni. “Noi accettavamo qualsiasi paga perché avevamo bisogno di lavorare. Ma quest’anno sono i coltivatori ad avere bisogno di noi: il raccolto eccezionale richiede una quantità eccezionale di manodopera per incidere tutti questi papaveri prima che il sole li secchi. Inoltre quest’anno – proseguiva il bracciante – lavorare qui in Helmand è pericoloso perché c’è la guerra, si rischia la vita. Per questo abbiamo deciso che avevamo il diritto e la forza contrattuale per chiedere di essere pagati meglio: vogliamo la metà dell’oppio raccolto, sennò andiamo a lavorare da un’altra parte”.
Messi alle strette da questa minaccia, i coltivatori d’oppio della zona sono subito andati a manifestare sotto il palazzo del governatore di Helmand, Asadullah Wafa, chiedendo di intervenire in questa disputa salariale a difesa dei loro profitti.
“Abbiamo speso tutti i nostri soldi per coltivare i campi e ora rischiamo di perdere tutto se il raccolto si blocca. Il governo deve intervenire, ci deve
difendere!”, dicevano i proprietari terrieri scesi in piazza sotto gli occhi di quella stessa polizia che, in teoria, dovrebbe distruggere le loro piantagioni.
Sono bastate poche ore di protesta perché il governatore accettasse di intervenire, stabilendo il “giusto salario” dei raccoglitori nella misura di un quarto del raccolto.
Incredibile: le autorità governative, lungi dal combattere i produttori d’oppio, ne difendono gli interessi, per un motivo molto semplice: sono soci in affari. E tali sono considerati dai proprietari delle piantagioni, che infatti trovano del tutto naturale rivolgersi al governo per chiedere il suo aiuto: se salta il raccolto ci perdono entrambi, coltivatori e governo. Sotto la tutela dell’Occidente, Stati Uniti in testa, l’Afghanistan sta diventando il narco-Stato più potente del pianeta. Il famoso ‘Triangolo d’Oro’ in Indocina è diventato una bazzecola a confronto.
Due realtà lontane, accomunate però da una caratteristica che fa riflettere:
quella di svolgere, o di aver svolto, il ruolo di roccaforte alleata degli Stati Uniti nelle loro guerre contro “il male” del momento: il comunismo o ieri, il terrorismo oggi.
Una volta chiesi a un esperto straniero di questioni economiche: “Qual è la
vera ragione per cui gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan nel 2001?
Visto che lì di petrolio non ce n’è e la famosa faccenda dell’oleodotto della
Unocal era marginale e superata, l’hanno fatto per cosa: per vendicare gli
attentati dell’11 settembre oppure per difendere i loro interessi strategici
nella regione, le basi militari a ridosso della Cina?”.
Lui rispose: “Né l’uno né l’altro. In Afghanistan non c’è petrolio, ma c’è
l’oppio. Nel 2000 i talebani, per ottenere il riconoscimento della comunità
internazionale, avevano smesso di coltivarlo, destabilizzando e rischiando
di mettere in crisi il terzo mercato più redditizio del pianeta dopo quello del
petrolio e delle armi: quello della droga. Ora tutto è tornato a posto”.
All’epoca non lo presi sul serio.
Enrico Piovesana
Peace Reporter (.pdf)
Nell’aria calda e polverosa della città, il profumo degli alberi di mandarino in fiore si mescola all’odore acre di carne bruciata dei cadaveri straziati e carbonizzati dall’esplosione dell’ennesimo uomo-bomba saltato in aria in centro.
Nella notte tiepida e illuminata dalla luna, il dolce canto dei grilli fa da sottofondo al rumore degli elicotteri da guerra e dei jet militari che volano senza sosta, carichi di missili e bombe che sganceranno sui villaggi controllati dai talebani. Missili e bombe che uccidono centinaia di civili, come testimoniano i feriti che arrivano nell’ospedale di Emergency a Lashkargah. Ma nessuno lo dice, perché dall’anno scorso il governo afgano – di concerto con la Nato – ha imposto la censura più completa su qualsiasi notizia che possa ingenerare sentimenti “contrari alle forze internazionali presenti nel paese”.
Forze che a Lashkargah non si vedono più: hanno paura. Contrariamente a quanto accadeva fino a pochi mesi fa, oggi è impossibile incrociare per le polverose strade della città i Land Rover dell’esercito britannico – questa è zona loro: se ne stanno chiusi nella loro base-fortezza, il Prt di Lashkargah.
Muoversi in convoglio per il centro abitato sarebbe un suicidio: la gente qui odia i militari stranieri, e i talebani ormai sono presenti ovunque e colpiscono ovunque. In giro ci sono solo soldati e poliziotti afgani armati fino ai denti, oltre ai contadini e ai primi braccianti stagionali che da tutto il paese stanno affluendo per il raccolto qui in Helmand, dove si produce la metà di tutto l’oppio afgano.
Nei campi fuori città, i papaveri da oppio sono sfioriti e quasi pronti per essere incisi. Quest’anno si prevede un raccolto che straccerà ogni record storico.
Le abbondanti piogge primaverili, del tutto eccezionali per questa regione arida, dovrebbero garantire una produttività mai vista prima, sfondando addirittura il tetto dei cento chili di oppio per ettaro, il doppio della norma.
Questo, ovviamente, ha fatto scendere di molto il prezzo di mercato del tariak, l’oppio grezzo, quotato a 80-90 dollari al chilo. Meno degli anni passati – quando l’oppio rendeva 100-120 dollari al chilo – ma sempre molto più di quanto renderebbero altre colture come il riso, il grano o il mais, ancora fortemente deprezzate a causa dell’imbattibile concorrenza delle forniture gratuite del World Food Programme che negli ultimi anni hanno inondato il mercato afgano. Per questa gente l’oppio è l’unica possibile fonte di sussistenza. Vista la mancanza di alternative, senza l’oppio morirebbero di fame. Per questo sono pronti a difendere i loro campi, anche con le armi, anche a costo della loro vita. Sono già decine i contadini uccisi quest’anno dalla polizia afgana impiegata nella campagna antidroga del governo Karzai, sostenuta dai quattrini della comunità internazionale. Ma anche questi fatti vengono tenuti nascosti, o camuffati: i contadini uccisi diventano, da morti, talebani.
Già, la campagna antidroga: un programma fantasma, che in cinque anni non ha dato nessun risultato. La produzione dell’oppio in Afghanistan non è mai stata florida come sotto il governo Karzai. L’anno scorso nel paese c’erano 165 mila ettari di terreno coltivati a oppio e quest’anno sfioreranno i 180 mila ettari, vale a dire il doppio rispetto ai 91 mila ettari coltivati del 1999, l’anno del record storico sotto il regime talebano, quando vennero prodotte 4.600 tonnellate di oppio. Quest’anno il raccolto previsto è di settemila tonnellate. Le strade delle città europee sono inondate di eroina “made in Afghanistan” molto più oggi (il novantadue percento della produzione mondiale) di quando a produrla c’erano i mullah con turbante e barba lunga (il quaranta percento).
Come spiegare un simile fallimento nel conseguire un obiettivo che fin dall’inizio dal 2001 era stato presentato come una delle ragioni per cui bisognava abbattere il regime talebano? Un obiettivo tanto più importante in quanto – lo sapevano tutti – il rifiorire dell’oppio sarebbe stato usato dai talebani per finanziare la loro riscossa, com’è puntualmente accaduto. La risposta a questa domanda la iniziamo a trovare alla periferia di Lashkargah, all’ombra di un grande cartellone che pubblicizza i raid antioppio delle ruspe governative. Qui incontriamo Faizullah e Nur, due coltivatori amici di amici di amici che hanno acconsentito a raccontarci cose che non si dovrebbero dire a nessuno, tanto meno a uno straniero. “Voi credete che il governo venga a distruggere i raccolti. Invece viene a rubarli”, afferma il barbuto afgano lasciandoci a dir poco perplessi. “Vedete quei camion laggiù?”, dice indicando una lunga fila di mezzi parcheggiati ai margini della città. “Sono quelli sui quali il governo caricherà i papaveri tagliati dalle ruspe, per poi portarli a Kabul dove tutto dovrebbe essere bruciato in grandi falò. Ma li avete mai visti questi falò?”, domanda Faizullah facendo la faccia di chi la sa lunga. “Dovrebbero farli davanti alle telecamere, dando alla cosa la massima pubblicità, non vi pare? Invece dicono che fanno tutto di nascosto, per motivi di sicurezza. La verità è che l’oppio viene portato nelle raffinerie del governo, trasformato in eroina, e poi smerciato all’estero. Altro che campagna antidroga!”. Interviene il suo amico, Nur, il quale ci invita a riflettere su un semplice fatto. “Secondo voi, per quale ragione il governo decide di ‘distruggere’ i campi di papavero proprio in coincidenza con il raccolto? Perché aspetta che i papaveri siano pronti? Se lo scopo fosse veramente quello di distruggere i raccolti, il governo potrebbe mandare le ruspe prima, quando i papaveri sono ancora bassi. Invece aspetta la maturazione delle piante, per raccoglierle, non per distruggerle! Vi siete mai chiesti perché il governo si è sempre opposto all’uso degli aerei per distruggere i campi con i defoglianti? Credete forse che, come dicono loro, vogliano tutelare la salute dei
contadini? A spararci addosso però non si fanno problemi!”. Dopo la chiacchierata con Faizullah, decidiamo di approfondire l’argomento. Parliamo con altre persone di Lashkargah, altri coltivatori di papavero. Tutti confermano: il governo di Kabul finge di lottare contro il narcotraffico, ma in realtà sta semplicemente cercando di imporre una sorta di “monopolio di Stato” su questo lucroso business, colpendo solo i produttori di oppio “antigovernativi”, quelli che non si adeguano o che, peggio, sfidano le autorità.
“Chi come me ha un campo di oppio – spiega Gulam, proprietario di una piccola piantagione appena fuori città – ha due spese principali, che sostiene in oppio o in denaro: pagare la manodopera stagionale necessaria per il raccolto lasciando ai
braccianti una parte dell’oppio da essi raccolto, e pagare il governo per mettere al riparo il campo dalle ruspe e dalle irruzioni della polizia. Chi non paga questa tassa, o peggio paga il pizzo ai talebani, rischia che il suo raccolto finisca razziato dal governo”.
Insomma: il governo di Kabul si impossessa dell’oppio o “prelevandolo” con questo sistema di tassazione feudale clandestina, o rubandolo con la forza a coloro che non si adeguano, agendo dietro la copertura della campagna antidroga.
Che fine faccia l’oppio che arriva a Kabul a bordo dei camion mostratici da Faizullah ce lo spiega Sayed, che ha un fratello che lavora per il governo nella capitale. A suo dire, fino a un paio di anni fa, quell’oppio veniva trasportato
direttamente all’estero, soprattutto in Iran e Tagikistan, dove c’erano le raffinerie in cui veniva trasformato in eroina da inviare in Europa.
“Poi il governo – spiega Sayed – ha capito che conveniva costruire raffinerie qui in Afghanistan, così da smerciare all’estero direttamente il prodotto finito, l’eroina. Con dieci chili di oppio si fa un chilo di polvere bianca: un camion carico di eroina ne vale almeno dieci carichi di oppio.
Ovviamente questo lo hanno capito anche i talebani e i trafficanti a loro collegati, che qui al sud hanno costruito centinaia di raffinerie. Quelle governative invece stanno tutte nella zona di Kabul. Mio fratello mi ha detto di aver visto l’anno scorso un camion del governo stracolmo di sacchi di farina pachistana: dentro però c’era un altro tipo di polvere bianca. Tra l’altro – conclude Sayed – gira voce che molti di questi sacchi vengano rivenduti, o regalati, anche a ufficiali stranieri, soprattutto statunitensi”.
Al di là delle leggende urbane, i racconti di queste e di molte altre persone che abbiamo incontrato a Lashkargah descrivono una situazione completamente diversa, anzi opposta rispetto a quella che conosciamo noi in Occidente: il governo di Kabul sostenuto dalle nostre truppe e dai nostri soldi finge di lottare contro la produzione e il commercio dell’oppio, in realtà ci è invischiato fino al collo.
Il che non dovrebbe stupire più di tanto, se si considera che Walid Karzai,
fratello dell’elegante presidente afgano, è noto per essere il maggiore trafficante d’oppio della regione di Kandahar.
Ciononostante, i dubbi rimangono. Almeno fino a quando la realtà dei fatti
non ci viene platealmente sbattuta in faccia con un evento che ha dell’incredibile.
Pochi giorni dopo, infatti, i braccianti stagionali della provincia di Helmand
hanno minacciato uno sciopero per chiedere di essere pagati di più.
“Gli anni scorsi i proprietari terrieri ci pagavano lasciandoci un decimo, un
quindicesimo dell’oppio che raccoglievamo”, raccontava un contadino in quei giorni. “Noi accettavamo qualsiasi paga perché avevamo bisogno di lavorare. Ma quest’anno sono i coltivatori ad avere bisogno di noi: il raccolto eccezionale richiede una quantità eccezionale di manodopera per incidere tutti questi papaveri prima che il sole li secchi. Inoltre quest’anno – proseguiva il bracciante – lavorare qui in Helmand è pericoloso perché c’è la guerra, si rischia la vita. Per questo abbiamo deciso che avevamo il diritto e la forza contrattuale per chiedere di essere pagati meglio: vogliamo la metà dell’oppio raccolto, sennò andiamo a lavorare da un’altra parte”.
Messi alle strette da questa minaccia, i coltivatori d’oppio della zona sono subito andati a manifestare sotto il palazzo del governatore di Helmand, Asadullah Wafa, chiedendo di intervenire in questa disputa salariale a difesa dei loro profitti.
“Abbiamo speso tutti i nostri soldi per coltivare i campi e ora rischiamo di perdere tutto se il raccolto si blocca. Il governo deve intervenire, ci deve
difendere!”, dicevano i proprietari terrieri scesi in piazza sotto gli occhi di quella stessa polizia che, in teoria, dovrebbe distruggere le loro piantagioni.
Sono bastate poche ore di protesta perché il governatore accettasse di intervenire, stabilendo il “giusto salario” dei raccoglitori nella misura di un quarto del raccolto.
Incredibile: le autorità governative, lungi dal combattere i produttori d’oppio, ne difendono gli interessi, per un motivo molto semplice: sono soci in affari. E tali sono considerati dai proprietari delle piantagioni, che infatti trovano del tutto naturale rivolgersi al governo per chiedere il suo aiuto: se salta il raccolto ci perdono entrambi, coltivatori e governo. Sotto la tutela dell’Occidente, Stati Uniti in testa, l’Afghanistan sta diventando il narco-Stato più potente del pianeta. Il famoso ‘Triangolo d’Oro’ in Indocina è diventato una bazzecola a confronto.
Due realtà lontane, accomunate però da una caratteristica che fa riflettere:
quella di svolgere, o di aver svolto, il ruolo di roccaforte alleata degli Stati Uniti nelle loro guerre contro “il male” del momento: il comunismo o ieri, il terrorismo oggi.
Una volta chiesi a un esperto straniero di questioni economiche: “Qual è la
vera ragione per cui gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan nel 2001?
Visto che lì di petrolio non ce n’è e la famosa faccenda dell’oleodotto della
Unocal era marginale e superata, l’hanno fatto per cosa: per vendicare gli
attentati dell’11 settembre oppure per difendere i loro interessi strategici
nella regione, le basi militari a ridosso della Cina?”.
Lui rispose: “Né l’uno né l’altro. In Afghanistan non c’è petrolio, ma c’è
l’oppio. Nel 2000 i talebani, per ottenere il riconoscimento della comunità
internazionale, avevano smesso di coltivarlo, destabilizzando e rischiando
di mettere in crisi il terzo mercato più redditizio del pianeta dopo quello del
petrolio e delle armi: quello della droga. Ora tutto è tornato a posto”.
All’epoca non lo presi sul serio.
Enrico Piovesana
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11 ottobre 2007
A Death in the Family
Having volunteered for Iraq, Mark Daily was killed in January by an I.E.D. Dismayed to learn that his pro-war articles helped persuade Daily to enlist, the author measures his words against a family's grief and a young man's sacrifice.
by Christopher Hitchens November 2007, Vanity Fair
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10 ottobre 2007
£ 0.00
It's the first major album whose price is determined by what individual consumers want to pay for it. And it's perfectly acceptable to pay nothing at all.Posso dire di essere emozionato?
Time.com, 1/10/07
Ho prenotato il nuovo disco dei Radiohead la scorsa settimana sul loro sito. Come suggerito, ho indicato l'importo che volevo pagare (e cioè 0,00: l'unica cifra che non ha bisogno di essere convertita) e ora mi sto ascoltando il lavoro dei Radiohead, finito 10 giorni fa, prenotato una settimana fa, scaricato 20 minuti fa, a costo zero (che non sembra un granché, al primo ascolto...). Se è vero quello che ho sentito dire, e cioè che la cifra media offerta per il downloading del pacchetto è più o meno la stessa che per un qualsiasi altro album a pagamento su iTunes, allora forse siamo di fronte a un punto di svolta, fatto non da pionieri, dato che molti altri hanno "osato" prima, ma forse i primi di questo peso a offrire in modo totalmente gratuito il proprio lavoro, sin dal debutto e al 100%. Non più le briciole da farti annusare per far venire l'acquolina ad acquistare, ma il pasto completo, tutto e subito, consegnato a domicilio dal ristorante con tre forchette. Decidi quanto pagare per mangiare. Una prodigiosa operazione di marketing, con la differenza che il trucco e l'inganno non ci sono (almeno spero...). Altri li seguiranno, i nine inch nails ha(nno) rotto il contratto, i pearl jam pure. quello che hanno fatto i radiohead per primi tra i giganti è dimostrare che i soldi possono essere il mezzo e non il fine. ok, adesso torno con i piedi per terra...
Le case discografiche stanno reagendo in maniera goffa e scomposta (per esempio denunciando i propri clienti... del resto, è più semplice comminare una multa a una massaia del minnesota che perseguire penalmente l'intera repubblica popolare cinese. più facile ma a chi giova?), i fan/clienti/ascoltatori stanno reagendo da tempo positivamente (ormai se ne sono accorti tutti tranne i dinosauri).
ieri il quadro era desolante, con il costume e l'industria a inseguire l'arte e la tecnologia (neanche troppo avanzata...). da oggi il quadro è quello di ieri ma con una certezza in più. si può.
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radiohead,
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tecnologia
09 ottobre 2007
07 ottobre 2007
Safari
Non il software, né la "caccia" con una macchina fotografica. Ma quello vero.
S. African Eastern Cape
* 7-TROPHIES, 1X1 – 10 DAYS
* Safari Package: $5,900
* This safari package is one of the best values we‘ve found for international big game hunting. This outfitter hunts on over 750,000 acres of private land teeming with excellent trophy quality animals. Accommodations and meals are first-class and the professional hunters are some of the finest around. This is a great hunt for groups or families. Package includes a Cape kudu, Black or Blue wildebeest, Cape bushbuck, Blesbok, Impala, Springbuck and Duiker. Early bookings recommended, now booking for 2008 and 2009.
* Rates: $5,900 – 10 days, seven trophies/person, 1x1
* Dates: March – October
* Includes: Professional hunter, trackers, skinners, lodging, meals, airport transfers, in-field transportation, field care of trophies.
* Not included: Trophy fees on additional animals taken, dip/pack/crate and shipping of trophies, tips.
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safari
06 ottobre 2007
Un nuovo piromane si aggira per il Nord Italia

Cronaca qui
p.s.: forse non si vede bene, ma al piede si riporta la notizia di "7mila aborti l'anno. La strage silenziosa". E la copertina di ieri era: "100mila clandestini terrorizzano Milano"
fileunder:
cronaca qui,
cronaca vera,
immondizia,
news (?)
05 ottobre 2007
Paradosso
"Pippo Baudo presenta la NUOVA Domenica In"
è più un paradosso o più un ossimoro?
è più un paradosso o più un ossimoro?
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domenica in,
ossimoro,
paradossi,
pippo baudo
02 ottobre 2007
Ecco dove sono i morti
Myanmar - 01.10.2007

Trovati cadaveri nei canali intorno Rangoon. Si crede siano monaci gettati in mare dai militari
Come i desaparecidos che i militari argentini trucidavano nel 1978. Così anche le vittime della repressione militare della Giunta birmana guidata da Than Shwe sarebbero in parte state gettate in mare. Alcuni siti della dissidenza birmana hanno rilanciato la notizia che verrebbe da diversi collaboratori a Rangoon. Al momento ci sono anche un paio di foto che mostrano i corpi di monaci rinvenuti nei canali tra l'ex capitale e il mare delle Andamane. "Diversi nostri attivisti ci chiamano per segnalare corpi di monaci che galleggiano nelle secche, nei canali e nei golfi vicino al mare" ha detto a PeaceReporter il caporedattore di un sito che raggruppa i dissidenti birmani in esilio. "Questo confermerebbe la voce che i militari, dopo aver prelevato nei giorni scorsi i monaci dai monasteri di Rangoon, li hanno caricati su navi della Marina militare per poi scaricarli in mare aperto". Come durante la dittatura militare argentina,come nel libro ''El Vuelo'' del giornalista Horacio Verbitski, dove i 'desaparecidos' venivano scaricati nell'oceano da elicotteri militari in volo. E di "parecchie persone disperse" parla anche con PeaceReporter Democratic Voice of Burma dalla Norvegia, a nome di tutti i dissidenti che danno informazioni dalla Rangoon resa deserta dalla furia dei soldati. "Stiamo passando dalla repressione militare alla 'Pulizia personale' una nuova variante birmana della 'pulizia etnica', dove le persone degli oppositori vengono eliminate, ci ha detto al telefono Moe Aye, caporedattore di Dvb e coordinatore dei collaboratori da Rangoon. Questa notizia si aggiunge al timore che i duecento morti dei giorni passati siano stati immediatamente cremati per non lasciare tracce della brutalità del regime, come confermato da quanto risulta al servizio funerario centrale di Rangun in Ayewae, che avrebbe ricevuto oltre 200 cadaveri nei 4 giorni di repressione più dura, o come risulterebbe a diversi cimiteri. Da più parti le voci dicono che i corpi dei manifestanti uccisi sono stati bruciati immediatamente, per non lasciarsi dietro tracce della carneficina.
E altri scenari inquietanti, con diverse similitudini con le dittature sudamericane degli anni ’70, ci provengono dai racconti dei dissidenti che hanno raccolto informazioni su dove vengono portate le persone arrestate nel corso delle manifestazioni degli ultimi 5 giorni. Secondo i calcoli delle organizzazioni di dissidenti, dall'inizio delle manifestazioni contro il regime il 19 agosto passato, i militari hanno represso le proteste arrestando finora quasi 6mila attivisti e monaci "scesi a marciare a fianco del popolo birmano". Tra essi, oltre 2mila sono monaci e 100 dovrebbe essere le suore; il resto sarebbero studenti del movimento di protesta e simpatizzanti del Nld (National League for Democracy) di Aung San Suu Kii. Per loro il regime ha già allestito quattro centri di detenzione, con analogie che ricordano i primi mesi della repressione seguita al golpe cileno dell'11 settembre 1973 di Augusto Pinochet. I quattro centri sono nella cittadina di Insein, nord di Rangoon, intorno la più grande e tristemente famosa prigione che negli ultimi 40 anni ha raccolto i prigionieri politici, oppositori del regime. Uno è lo stadio di calcio Taks, "dove si troverebbero tra i 2 e i 3mila oppositori prigionieri" secondo quanto riportato da ‘Democratic Voice of Burma, organo dei dissidenti birmani in esilio. Sotto il dominio britannico, lo stadio era un ippodromo per le gare di galoppo. Poi un ex Istituto tecnico di informatica, "i cui studenti sono stati allontanati da scuola", il Ddi; una ex fabbrica chimica di medicinali denominata 'Bbin' e un vero campo di tende, eretto a lato dell'enorme struttura di Insein.

Trovati cadaveri nei canali intorno Rangoon. Si crede siano monaci gettati in mare dai militari
Come i desaparecidos che i militari argentini trucidavano nel 1978. Così anche le vittime della repressione militare della Giunta birmana guidata da Than Shwe sarebbero in parte state gettate in mare. Alcuni siti della dissidenza birmana hanno rilanciato la notizia che verrebbe da diversi collaboratori a Rangoon. Al momento ci sono anche un paio di foto che mostrano i corpi di monaci rinvenuti nei canali tra l'ex capitale e il mare delle Andamane. "Diversi nostri attivisti ci chiamano per segnalare corpi di monaci che galleggiano nelle secche, nei canali e nei golfi vicino al mare" ha detto a PeaceReporter il caporedattore di un sito che raggruppa i dissidenti birmani in esilio. "Questo confermerebbe la voce che i militari, dopo aver prelevato nei giorni scorsi i monaci dai monasteri di Rangoon, li hanno caricati su navi della Marina militare per poi scaricarli in mare aperto". Come durante la dittatura militare argentina,come nel libro ''El Vuelo'' del giornalista Horacio Verbitski, dove i 'desaparecidos' venivano scaricati nell'oceano da elicotteri militari in volo. E di "parecchie persone disperse" parla anche con PeaceReporter Democratic Voice of Burma dalla Norvegia, a nome di tutti i dissidenti che danno informazioni dalla Rangoon resa deserta dalla furia dei soldati. "Stiamo passando dalla repressione militare alla 'Pulizia personale' una nuova variante birmana della 'pulizia etnica', dove le persone degli oppositori vengono eliminate, ci ha detto al telefono Moe Aye, caporedattore di Dvb e coordinatore dei collaboratori da Rangoon. Questa notizia si aggiunge al timore che i duecento morti dei giorni passati siano stati immediatamente cremati per non lasciare tracce della brutalità del regime, come confermato da quanto risulta al servizio funerario centrale di Rangun in Ayewae, che avrebbe ricevuto oltre 200 cadaveri nei 4 giorni di repressione più dura, o come risulterebbe a diversi cimiteri. Da più parti le voci dicono che i corpi dei manifestanti uccisi sono stati bruciati immediatamente, per non lasciarsi dietro tracce della carneficina.
E altri scenari inquietanti, con diverse similitudini con le dittature sudamericane degli anni ’70, ci provengono dai racconti dei dissidenti che hanno raccolto informazioni su dove vengono portate le persone arrestate nel corso delle manifestazioni degli ultimi 5 giorni. Secondo i calcoli delle organizzazioni di dissidenti, dall'inizio delle manifestazioni contro il regime il 19 agosto passato, i militari hanno represso le proteste arrestando finora quasi 6mila attivisti e monaci "scesi a marciare a fianco del popolo birmano". Tra essi, oltre 2mila sono monaci e 100 dovrebbe essere le suore; il resto sarebbero studenti del movimento di protesta e simpatizzanti del Nld (National League for Democracy) di Aung San Suu Kii. Per loro il regime ha già allestito quattro centri di detenzione, con analogie che ricordano i primi mesi della repressione seguita al golpe cileno dell'11 settembre 1973 di Augusto Pinochet. I quattro centri sono nella cittadina di Insein, nord di Rangoon, intorno la più grande e tristemente famosa prigione che negli ultimi 40 anni ha raccolto i prigionieri politici, oppositori del regime. Uno è lo stadio di calcio Taks, "dove si troverebbero tra i 2 e i 3mila oppositori prigionieri" secondo quanto riportato da ‘Democratic Voice of Burma, organo dei dissidenti birmani in esilio. Sotto il dominio britannico, lo stadio era un ippodromo per le gare di galoppo. Poi un ex Istituto tecnico di informatica, "i cui studenti sono stati allontanati da scuola", il Ddi; una ex fabbrica chimica di medicinali denominata 'Bbin' e un vero campo di tende, eretto a lato dell'enorme struttura di Insein.
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01 ottobre 2007
Sfida ad armi impari contro l’impunità
La testimonianza del procuratore Bruno Tinti. I tempi di prescrizione e i carichi di lavoro dell’amministrazione diventano un aiuto per chi compie reati
«Toghe rotte, la giustizia raccontata da chi la fa», Edizioni Chiarelettere 12 euro.
«Ogni lunedì mattina, a Torino, due poliziotti bussano alla porta di un procuratore del tribunale: bisogna compilare le richieste di decreti penali per violazione dell’articolo 186 del Codice della strada, quello della guida in stato di ebbrezza. Ma chi lavora lì, il procuratore aggiunto Bruno Tinti, si arrovella da tempo: «Ma perché non possono farsi pagare gli stessi 900 euro a cui li condanniamo noi? Tanto più che i nostri 900 euro non li pagheranno mai. Succede così: noi chiediamo il giorno stesso al gip di fare il decreto penale, però glielo mandiamo tra due anni perché la cancelleria prima non ce la fa; il Gip ci mette altri due anni a fare le notifiche. A quel punto è scattata la prescrizione e l’ubriaco al volante non paga nemmeno un euro».
Paradossi come questo spiegano perché la giustizia italiana non funziona. Tinti li ha raccontati nel libro «Toghe rotte», edito da Chiarelettere, di cui ha parlato ieri intervenendo al programma «Viva Voce», su Radio 24. Non c’è un filo di retorica nelle pagine scritte dal magistrato di Torino: al contrario, il libro è una lucida ricostruzione di chi è chiamato ad amministrare la giustizia ma deve fare i conti con un sistema desolante.
«Ma lo sanno i cittadini italiani che, vista la prescrizione, noi lavoriamo spesso per niente?» chiede provocatoriamente Tinti. E invita ad analizzare i reati di tipo finanziario, settore in cui il magistrato è specializzato: «In Italia bancarottieri, evasori, truffatori hanno vita facilissima – racconta Tinti – ci sono alcuni processi che neppure cominciano e sono già prescritti. Faccio un esempio: poniamo che la Guardia di Finanza oggi stesso vada a controllare i bilanci di una società e faccia la verifica fiscale dal 2003 al 2006. Per fare la verifica ci mette un anno e magari scopre un falso in bilancio del 2005. Quando il rapporto arriva sulla mia scrivania è già la fine del 2008. A quel punto me la fate fare un’indagine? Il che vuol dire esaminare conti bancari all’estero, controllare commercialisti spesso con sede a Londra. Questa indagine, se lavoro come una bestia, dura almeno un anno e mezzo. La prescrizione per falso in bilancio, per una società quotata in Borsa, scatta a sette anni e mezzo. Risultato: non arriviamo nemmeno alla sentenza di primo grado».
Gli esempi contenuti in «Toghe rotte» a volte sono spassosi, in altri casi si ride per non piangere. Inarrivabile il racconto di «come ammazzare la moglie e vivere felici», nel quale si spiega come è possibile compiere un uxoricidio e cavarsela con appena cinque anni di carcere. Il tutto applicando rigorosamente il Codice. «Nei confronti del quale – aggiunge polemicamente Tinti – non voglio dire una sola parola».
Con tutte le garanzie previste a difesa dell’imputato, in carcere ci vanno sempre meno persone: «Ormai ci finisce solo qualche omicida, qualche rapinatore e una sterminata quantità di extracomunitari che rubacchiano o spacciano», prosegue Tinti. «Il sistema non dà risposte. Una pena di tre mesi inflitta il giorno stesso o quello successivo la commissione di un reato ha un effetto deterrente. Invece una pena finta di sei anni, inflitta dieci anni dopo il reato, vuol dire che si può delinquere impunemente».
(Il Sole-24 Ore, 29/9/2007)
«Toghe rotte, la giustizia raccontata da chi la fa», Edizioni Chiarelettere 12 euro.
«Ogni lunedì mattina, a Torino, due poliziotti bussano alla porta di un procuratore del tribunale: bisogna compilare le richieste di decreti penali per violazione dell’articolo 186 del Codice della strada, quello della guida in stato di ebbrezza. Ma chi lavora lì, il procuratore aggiunto Bruno Tinti, si arrovella da tempo: «Ma perché non possono farsi pagare gli stessi 900 euro a cui li condanniamo noi? Tanto più che i nostri 900 euro non li pagheranno mai. Succede così: noi chiediamo il giorno stesso al gip di fare il decreto penale, però glielo mandiamo tra due anni perché la cancelleria prima non ce la fa; il Gip ci mette altri due anni a fare le notifiche. A quel punto è scattata la prescrizione e l’ubriaco al volante non paga nemmeno un euro».
Paradossi come questo spiegano perché la giustizia italiana non funziona. Tinti li ha raccontati nel libro «Toghe rotte», edito da Chiarelettere, di cui ha parlato ieri intervenendo al programma «Viva Voce», su Radio 24. Non c’è un filo di retorica nelle pagine scritte dal magistrato di Torino: al contrario, il libro è una lucida ricostruzione di chi è chiamato ad amministrare la giustizia ma deve fare i conti con un sistema desolante.
«Ma lo sanno i cittadini italiani che, vista la prescrizione, noi lavoriamo spesso per niente?» chiede provocatoriamente Tinti. E invita ad analizzare i reati di tipo finanziario, settore in cui il magistrato è specializzato: «In Italia bancarottieri, evasori, truffatori hanno vita facilissima – racconta Tinti – ci sono alcuni processi che neppure cominciano e sono già prescritti. Faccio un esempio: poniamo che la Guardia di Finanza oggi stesso vada a controllare i bilanci di una società e faccia la verifica fiscale dal 2003 al 2006. Per fare la verifica ci mette un anno e magari scopre un falso in bilancio del 2005. Quando il rapporto arriva sulla mia scrivania è già la fine del 2008. A quel punto me la fate fare un’indagine? Il che vuol dire esaminare conti bancari all’estero, controllare commercialisti spesso con sede a Londra. Questa indagine, se lavoro come una bestia, dura almeno un anno e mezzo. La prescrizione per falso in bilancio, per una società quotata in Borsa, scatta a sette anni e mezzo. Risultato: non arriviamo nemmeno alla sentenza di primo grado».
Gli esempi contenuti in «Toghe rotte» a volte sono spassosi, in altri casi si ride per non piangere. Inarrivabile il racconto di «come ammazzare la moglie e vivere felici», nel quale si spiega come è possibile compiere un uxoricidio e cavarsela con appena cinque anni di carcere. Il tutto applicando rigorosamente il Codice. «Nei confronti del quale – aggiunge polemicamente Tinti – non voglio dire una sola parola».
Con tutte le garanzie previste a difesa dell’imputato, in carcere ci vanno sempre meno persone: «Ormai ci finisce solo qualche omicida, qualche rapinatore e una sterminata quantità di extracomunitari che rubacchiano o spacciano», prosegue Tinti. «Il sistema non dà risposte. Una pena di tre mesi inflitta il giorno stesso o quello successivo la commissione di un reato ha un effetto deterrente. Invece una pena finta di sei anni, inflitta dieci anni dopo il reato, vuol dire che si può delinquere impunemente».
(Il Sole-24 Ore, 29/9/2007)
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